ott222018
E allora quando e come coinvolgere il paziente in una ricerca clinica? "In tutte le fasi", è la risposta di Marco Scatigna di Sanofi. "All'inizio della ricerca clinica per capire, ad esempio, dove è importante intervenire per migliorare davvero la qualità di vita del paziente, perché non sempre gli endpoint primari stabiliti dallo sperimentatore clinico coincidono con le esigenze e le problematiche che più affliggono il paziente nel quotidiano". A lungo gli studi clinici per la malattia di Parkinson, cita Scatigna, hanno valutato come endpoint primario il tremore in risposta all'input dei neurologi che avevano individuato nella sua riduzione l'obiettivo primario che avrebbe dovuto avere la terapia. Solo in seguito, approfondendo con il paziente, si è scoperto che il problema maggiore non era il tremore, ma sentire le articolazioni bloccate dal mattino e non riuscire ad alzarsi dal letto, mentre obiettivo secondario era diventato contenere gli effetti della depressione che spesso accompagna la sintomatologia. Mettersi in ascolto del paziente - all'inizio, ma anche nella fase di conduzione della ricerca -, aiuta a migliorare l'accesso al trial e se il paziente non risponde più a nessuna terapia, occorre fermarsi e cercare di capire dove nel mondo si stanno conducendo studi simili, comunicando in maniera trasparente i diversi esiti.
Fondamentale, oltre alla divulgazione dei risultati, la comprensione del consenso informato del trial clinico che si traduce in benefici per il paziente e per lo studio stesso, perché un paziente informato ha compreso il valore della ricerca e continuerà la terapia non abbandonando di fronte alle prime possibili difficoltà. Facilitazioni potrebbero arrivare dalla diffusione del consenso informato elettronico/digitale - come evidenziato nel progetto di collaborazione tra il Gruppo Italiano Pazienti con Ipercolesterolemia Famigliare (GIP-FH) e Sanofi -, con navigazioni in format che permettano al paziente d'interagire ponendo domande e al clinico di verificare che siano state comprese le risposte necessarie a compiere una scelta consapevole. Del resto, "Un paziente informato può diventare un paziente esperto che aiuta se stesso e la ricerca" conferma Paola Kruger di Eupati.
"È cambiato il modo di fare ricerca, che - spiega Loredana Bergamini, direttore medico di Janssen Cilag Italia - oggi sempre più rivolto al paziente", cui si riconosce la dimensione di unicità come persona e nel vissuto, pur restando sconosciuto nel nome e nel cognome come da condizione d'ingaggio. Anche le associazioni di pazienti hanno contribuito a modificare il rapporto tra pazienti e sperimentatori: "Interagire con la rappresentanza numericamente importante di pazienti intercettata dalle associazioni di riferimento permette all'azienda farmaceutica di capire meglio esigenze e aspettative e d'altro canto, rappresenta per i pazienti un occasione per accedere a tutte le informazioni possibili per capire meglio gli obiettivi della sperimentazione che li riguarda".
"Associazioni di pazienti e aziende che spesso varcano l'una le porte dell'altra - concorda Loretta Mameli di Janssen - perché lo scambio azienda-associazione può arricchire la crescita di competenze all'interno di entrambe le realtà". Alcuni esempi sono la collaborazione fra le associazioni FedEmo-Paracelso e Roche per un protocollo osservazionale che, spiega Luisa De Stefano, head of Patient Advocacy in Roche,"Ha conciliato un obiettivo aziendale con uno di comunità, al di là dei dati emersi utili a profilare meglio la malattia" e il progetto "Sclerosi multipla pediatrica: dal programma registrativo alla clinica", nato dall'alleanza fra AISM e Novartis. "La sperimentazione in ambito pediatrico dei risultati dello studio Paradigms - spiega Gaia Panina, chief scientific officer in Novartis - ha analizzato il ruolo del paziente pediatrico nello stadio finale dello studio, nel momento del trasferimento dei dati alla pratica clinica, con la creazione di un advisory board che ha coinvolto soggetti diversi per elaborazione di un progetto dedicato alla gestione futura della malattia, vista l'assenza di una terapia dedicata ad hoc a questi pazienti".
Cristina Campanale
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