lug82015
Quasi 400 imprese, un fatturato in crescita del 4,2% rispetto allo scorso anno, capacità di attrarre investimenti stranieri, di fare innovazione, di creare occupazione e a trainare il settore sono le biotecnologie della salute. A tracciare il quadro del biotech italiano è, in un'intervista per FarmacistaIndustriale, Alessandro Sidoli (foto), presidente di Assobiotec - Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie che fa parte di Federchimica - che mette anche in luce, come, pur in presenza di misure a sostegno dell'innovazione, pesano sulla competitività delle imprese, fino a metterne a rischio la sopravvivenza stessa, "l'insostenibile peso della burocrazia" e "i ritardi e l'incompletezza dei decreti attuativi delle misure introdotte a sostegno del settore".
Partiamo da uno scenario del settore in Italia, con qualche dato su aziende presenti, occupazione, ricerca... Con 384 imprese e un fatturato globale che supera ormai i sette miliardi di euro a fine 2014 (+4,2%), il biotech italiano si caratterizza per un trend di crescita importante che conferma la natura anticiclica del settore. Più della metà delle aziende (251) sono pure biotech: imprese cioè il cui core business rientra prevalentemente nell'utilizzo di moderne tecniche biotecnologiche per lo sviluppo di prodotti o servizi per la cura dell'uomo o degli animali, la produttività agricola, le risorse rinnovabili, la produzione industriale e la tutela dell'ambiente. Tra queste le pure biotech a capitale italiano sono 225. A trainare l'intero comparto è il segmento delle biotecnologie della salute (red biotech) in cui operano 277 imprese (il 72% del campione). In totale, gli investimenti in R&S del settore ammontano a più di 1,5 miliardi (+4,5%), mentre il numero degli addetti in R&S è prossimo alle 7.300 unità. Con una incidenza media degli investimenti in R&S sul fatturato del 19% - che sale al 31% per le pure biotech italiane - l'industria biotech è uno dei comparti a più elevata intensità di innovazione. Il biotech italiano rappresenta oggi uno tra i pochi settori in grado di attirare investimenti stranieri, di fare innovazione, di creare occupazione qualificata e di contribuire alla bilancia dei pagamenti.
Come è cambiato il modello di innovazione? Negli ultimi anni si è andato sempre più affermando un nuovo scenario nel quale la scoperta di un prodotto innovativo esce dai confini aziendali e si sviluppa in rete. È, infatti, sempre meno frequente che una sola impresa - per quanto grande sia - abbia al suo interno le risorse per svolgere nel modo più competitivo tutti i passaggi della ricerca. Quest'ultima tende dunque sempre più a svilupparsi attraverso collaborazioni tra soggetti diversi, collegati in un network innovativo nel quale la struttura di R&S delle grandi imprese è chiamata a scoprire idee innovative anche in ambiti esterni, come Pmi, Università, centri di eccellenza. Si viene quindi a creare una sorta di "mercato delle idee" nel quale il Sistema Italia ha grandi opportunità di successo grazie alla consolidata tradizione in produzioni di elevata qualità, alla specializzazione nella R&S biomedica, alla qualità dei ricercatori, al numero crescente di Pmi innovative e all'eccellenza di molti centri pubblici. Plus che hanno fatto sì che, solo nell'ultimo anno e mezzo, diverse imprese biotech italiane siano state protagoniste di autentiche storie di successo generando accordi per un valore complessivo di oltre cinque miliardi di euro a fronte di investimenti di qualche centinaia di milioni. Un'evidenza che dimostra come il biotech italiano sia in grado di offrire opportunità di investimento interessanti e remunerative nell'ottica di rilancio del nostro sistema Paese.
Quali sono le criticità presentate dal nostro paese e quali le richieste avanzate alla politica? Sul fronte dell'innovazione biotecnologica le imprese italiane non hanno nulla da invidiare a quelle degli altri Paesi. Abbiamo, infatti, una realtà industriale estremamente dinamica e competitiva, che si è dimostrata capace di crescere nonostante la crisi globale. Inoltre, negli ultimi anni l'Italia ha avviato politiche di sviluppo economico, volte a fare dell'innovazione la chiave della competitività del suo sistema industriale: già nel 2012 il Governo Monti aveva introdotto una serie di specifici incentivi per favorire la nascita e lo sviluppo di start-up innovative; con il decreto Investment Compact, l'attuale Governo ha esteso anche alle Pmi innovative larga parte delle agevolazioni fiscali e delle semplificazioni normative già previste per le start-up.E ancora con la Legge di stabilità 2015, il Governo ha introdotto un nuovo meccanismo di credito d'imposta grazie al quale le imprese italiane potranno beneficiare di un bonus fiscale pari al 25% delle spese sostenute per attività di R&S, percentuale che sale al 50% per università, centri di ricerca e start-up, nonché per le spese per personale ad alta qualificazione. L'incentivo sarà valido fino al 2019 e si applicherà solo sugli incrementi di spesa rispetto alla media del periodo 2012-2014. Al di là dell'indubbio significato di questa misura, le imprese dell'innovazione si trovano a pianificare investimenti continuativi e di lunga durata. Esse devono pertanto poter contare su un credito di imposta strutturale e di lungo periodo, altrimenti il confronto con la realtà degli altri Paesi rischia di vederle perdenti. Altra recente misura centrale per le imprese, inserita nella Legge di stabilità 2015, è quella relativa al cosiddetto Patent Box, un provvedimento che mira a scoraggiare la localizzazione, da parte delle imprese italiane, della proprietà intellettuale in giurisdizioni estere più aggressive, a incentivare il rientro in Italia dei beni immateriali produttivi esistenti all'estero e, indirettamente, a favorire gli investimenti in R&S nel Paese. Sicuramente un passo importante ma che riduce solo in misura parziale il gap fra l'Italia e i partner europei: il 13,75% di aliquota effettiva, applicata nel nostro Paese, si confronta infatti con il 10% del Regno Unito, con il 6,8% del Belgio, con il 5% dell'Olanda. Basterebbe restringere l'applicazione della misura ai soli brevetti, per renderla più incisiva e potenzialmente in grado di contribuire al rilancio della competitività del sistema industriale italiano. Infine, sono costretto a ricordare - per l'ennesima volta - l'insostenibile peso della burocrazia, e delle sue inefficienze, sul sistema dei finanziamenti e sulle misure di incentivazione per la ricerca e l'industria innovativa. I processi di valutazione dei progetti presentati, la gestione e l'erogazione dei finanziamenti pubblici, i ritardi e l'incompletezza dei decreti attuativi delle norme introdotte sono macigni che appesantiscono le imprese e che ne minano non solo la competitività, ma la stessa sopravvivenza. Non riuscire a risolvere questo problema equivale a vanificare l'effettiva efficacia di qualsiasi misura a sostegno dell'innovazione.Francesca Giani
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